Di Marina Gellona

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A un certo punto della mia vita ho iniziato ad amare follemente la neve: è stata colpa (merito) di un innamoramento arrivato come un dono e poi come un dolore su un matrimonio con le finestre rotte. Una nevicata importante aveva paralizzato la mia città e rimesso in movimento il cuore. Ho camminato con un mazzo di rose stretto tra le braccia e stivali di gomma azzurri che non tenevano affatto caldo, intorno alla vita il braccio di un uomo che arrivava dall’altra parte del mondo e con cui ho giocato, per poco, all’estate in un gelido gennaio, tra mucchi di neve che cambiavano fisionomia alle piazze.

Poi l’innamoramento si è sciolto, il matrimonio pure, ma la neve è rimasta con me, nel mio immaginario, quasi un’ossessione, con tutta la sua forza attrattiva, prima inconsapevole (la seguivo e la cercavo, senza sapere perché: i film, i libri, le fiabe, le fotografie, i racconti, le canzoni… cercavo, volevo, narrazioni in cui comparisse la neve e scrivevo di neve, storie vere o fiabe, racconti, recensioni). Dopo, è stato un riflettere più consapevole: ho capito, scrivendo di neve, che dentro di me c’era un paesaggio imbiancato da anni, un inverno duraturo che il mio inconscio aveva lasciato cadere su molte emozioni, ferite, sogni per conservare creature delicate – come semi, pesci, piante – che altrimenti sarebbero morte di freddo, d’indifferenza, di mancanza di nutrimento. Neve e letargo: ecco ciò che avevo escogitato, dentro di me, per tenere in salvo la vita; ma ora questa immobilità voleva un allentamento, uno scongelamento, una primavera.

Ho capito, scrivendo di neve, che avevo bisogno di silenzio e di rallentare. La neve, quando cade, non fa rumore. I passi, sulla neve, hanno suoni attutiti. Ne ho adorato il bianco, perché dice: ora puoi fare tutto da capo, oggi è un giorno nuovo, un album da disegno, amico dei colori. E anche delle parole: nei giorni di neve io sento una responsabilità particolare nel scegliere e usare le parole, come se le pronunciassi per la prima volta. Nella luce della neve i colori brillano, spiccano, risaltano e splendono e i contrasti ti permettono di vedere il mondo rinnovato. La neve inondata dal sole, poi, diventa tutto un canto, sgocciolii dai tetti, scricchiolare di ghiaccio, sbriciolii di croste dure, cic ciac nelle pozze d’acqua, impasti di terra e ghiaia. E l’invito al gioco: i pupazzi, correre, le palle di neve, diventare un angelo lasciandosi cadere sulla schiena e muovendo le braccia, come ali. E la sposa: il sogno, i ricami di fiocchi, il futuro come una promessa, un impegno, l’ignoto, lo spavento anche.

 

 

Ne ho visto il pericolo, la minaccia mortale della solitudine, soprattutto nel racconto Preparare un fuoco, di Jack London, dove un uomo si avventura nella neve senza compagni, il ghiaccio gli congela le dita, le dita non sono più in grado di far scorrere un fiammifero su una pietra per, appunto, accendere due rami in un falò. O nella Bambina dei fiammiferi, la straziante fiaba di H. C. Andersen, dove la piccola protagonista muore di solitudine (nessuno la vede, nessuno si ferma) e freddo, illudendosi con sogni incapaci di produrre una vera combustione vitale (non si muove, lei, non cerca riparo, fantastica su possibili caldi doni, cibi, conforto come racconta Pinkola Estes in Donne che corrono coi lupi, ma resta immobile). O, ancora, ne ho vista l’algida, agghiacciante, immortale ma mortifera bellezza nel regno della Regina delle nevi, sempre di Andersen. Della neve ho attraversato alcuni strati simbolici a modo mio, subìto e visto l’incanto e il sortilegio ammaliante. Grazie alla neve ho sentito che c’era qualcosa, anzi: molto, da sentire; c’erano le possibilità, i pericoli, i desideri, la solitudine e la voglia di comunità, il corpo, gli altri, il futuro. Avevo bisogno della neve per nascere nuova.

E in questi giorni, ora che si riavvicina l’inverno e la possibilità che una miriade di piume candide si posino sui tetti, sui marciapiedi, sugli alberi, ho ripensato a lei, Chandra Livia Candiani, una poetessa e, per me, è una nevicatrice, una parola che non esiste, lo so, e con cui mi prendo la libertà di giocare perché per me ci sono persone che sono come la neve, persone levatrici di pensieri ed emozioni nuove, e allora dico: nevicatrici, e lei è una di queste.

Quando l’ascolto parlare, quando leggo le sue poesie, provo sensazioni, emozioni simili a quando guardo cadere la neve, a quando osservo un fiocco da vicino, poco prima che svanisca a contatto con la pelle o con un pantalone di velluto nero, a quando -appena sveglia-, trovo il mondo ricoperto di glassa di ghiaccio e posso guardarlo dormire, a quando tutto il biancore atterrato sulle cose, colline automobili cassonetti, regala agli occhi un riposo, una tregua, un dubbio: sarà tutto ancora lì, lì sotto questa sfoglia di strati chiari di cristallo, o tutto è, oggi, scomparso per sempre?

 

 

Le sue parole sono, per me, come rametti neri che spuntano dalla neve della pagina: scrivere poesia è lasciare molto spazio al bianco, soppesare ogni parola, ascoltarla prima di dirla, ascoltare che cosa, chi incontra, nel buio del tuo bosco interiore, prima di tornare alla luce, dall’altra parte del silenzio, sulla pagina.

Le sue parole sono, per me, fiocchi di esperienza visti al microscopio. Una volta ho visto, in una strada di Barcellona un giorno di febbraio, una decorazione natalizia (luminosa la sera, di giorno spenta) a forma di fiocco di neve che proiettava la sua ombra sul muro di una casa, e ho visto, nella forma a raggera del fiocco, le braccia e gambe stilizzate di un bambino. Leggendo le poesie della Candiani, posso vedere piccoli frammenti di mondo al microscopio e sono micromondi: che non vuol dire insignificanti, anzi nell’infinitamente piccolo, nel vetrino frangibile della poesia, c’è un disegno nuovo.

Le sue parole sanno portare in salvo il silenzio tra una parola e l’altra, come un nido di cinciallegra, come un ricamo fiorito, teso tra le dita.

E quando, tra le sue poesie, ho trovato questa, mi sono sentita a casa, con la neve fuori.

 

Ti guardo dalla finestra:
semini bellezza che respira
tinta che fa
ondeggiare il mondo,
intimo l’aperto,
sorridi mentre corri,
lunga e distesa
cadi e sei silenzio.
Come è sonora
la tua mutezza,
articola un bene
che è equanime accoglienza
senza altra scelta bene
tutto bene
senza possibilità d’altro.
Contatto avvenuto contatto,
neve.

 

 

Ancora: le sue parole insieme ai suoi silenzi, sanno creare scialuppe di salvataggio per bambini e bambine che attraversano acque difficili, come i tanti, più di mille, che negli anni ha incontrato nelle scuole primarie della periferia milanese, soprattutto i molti bambini migranti che vivono in bilico tra una lingua madre e l’italiano e molti bambini rom con molta notte sopra le teste e molti italiani in un’Italia per loro inospitale. Accanto ai suoi stupendi libri di poesie, quasi tutti editi da Einaudi (trovate i titoli in fondo a questa pagina), c’è infatti un libro preziosissimo che raccoglie i versi scritti dai giovanissimi che ha conosciuto e per i quali ha aperto spazi di ascolto e di invito alla parola poetica nelle scuole: Ma dove sono le parole?

Come racconta in alcune pagine discorsive – tra una sezione di poesie e l’altra  -, “inizio spesso i miei seminari con il tema del silenzio. Perché i bambini conoscono per lo più il silenzio teso, il comando a cui si obbedisce facendosi piccoli, raggrinzendosi. E invece cerco di trasmettergli un silenzio che allarga, il piacere del silenzio che è ascolto di sé, del mondo, dell’altro, della sinfonia di cui facciamo parte”. E loro, i bambini, rispondono, ad esempio, così:

 

Melany, undici anni, peruviana

Il silenzio non è solo stare zitti

ma è la tua pace interiore

e sta nelle cose di tutti i giorni:

 

nella corsa di un bambino,

nel volo degli uccelli,

nella pioggia e nella neve

che cade libera e si posa delicatamente

come una ballerina nel suo spettacolo.

 

Questo silenzio, che vedere non si può,

ma tenerlo sì.

E devi solo trovarlo

perché il silenzio

sei tu.

 

Quando si congeda dai bambini, (dopo pagine e pagine di poesie dei bambini su di sé, sui grandi che li circondano, sulle parole, sugli addii, su ciò che conta, sulla poesia), la Candiani chiede che cosa è rimasto, in loro, del tempo passato insieme, un tempo in cui ha forse fatto scoprire a ciascuno il proprio potere di nevicatori e nevicatrici – ma questa è la mia visione del suo lavoro, lo dico per chiarezza. E loro rispondono cose così:

 

Priscilla, dieci anni, italiana

La poesia è un calorifero in inverno

che emana sentimenti.

La primavera che aspetti

da un secolo in quel buio.

La tua pazzia

che ti scioglie lentamente.

 

Chandra è una parola indiana e significa luna. Chandra Livia Candiani ha scelto questo nome per sé, dopo essere stata in India, aver conosciuto e abbracciato buddismo e meditazione, tema al centro del suo libro Il silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione. La luna, lei dice in questo delicatissimo video (https://www.youtube.com/watch?v=WzGpck52vXE) in cui racconta la propria esperienza di alcune parole (notte, radici, mappe, casa e tante altre), è la compassione della notte, la compassione che la notte può avere di noi e quindi darci questo filo di luce per contemplare meglio il buio profondo che c’è dentro di noi. Non dico altro. Anzi, lascio a lei la parola per salutare, con questa poesia colma di futuro, di quello che per me significa “purezza”: essere se stessi, pacificamente e rivoluzionariamente, se stessi, scegliendo i silenzi, le parole, i compagni, la natura e la naturalezza, proteggendo i bambini e le bambine, lasciandoli esprimere, lasciandoci esprimere, lasciandoci nevicare:

 

Allora senti

 

ci sarà un lupo

e sarà bianco

tu sarai bendata

e gli starai in groppa

in piedi

correrete insieme

slacciàti dalla ragione

legittimi alla velocità dell’aria.

Non ci sarà bisogno di fidarsi

avrà fiuto e tu equilibrio.

Dovrai tener caldo alle parole

tenerle in un orto sotto la camicia

a stretto contatto con la pelle.

Bruceranno e graffieranno.

Lasciati bruciare.

Passerete dalle città

non levarti mai la benda

anche quando sentirai chiamare

lusingare invocare resta dritta

in piedi in groppa al lupo.

La memoria è una fabbrica

che non smette mai

fa i turni di notte e non ha festivi.

Il lupo slaccerà i ricordi

uno per uno ne farà

fiocchi di neve.

Il vuoto sarà vasto

e alto e profondo

lo chiamerai carezza.

Allora senti.

 

A voi, lettrici e lettori, il piacere di scoprire altre parole di Chandra Livia Candiani e dei bambini e delle bambine che ha incontrato.

 

Alcuni titoli di libri di poesie di Chandra Livia Candiani pubblicati da Einaudi

Fatti vivo

La bambina pugile ovvero la precisione dell’amore

Le domande della sete

Il silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione

da Effigie:

Candiani, Criolla, Ma dove sono le parole?

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Marina Gellona

Da bambina, come tante, amavo la formula magica con cui si chiudono quasi tutte le fiabe: “e vissero tutti felici e contenti”. Crescendo ho capito che il lieto fine non si verifica con facilità, in nessun ambito della vita: e per un periodo non l’ho presa bene. Mi sono laureata in filosofia con molte domande esistenziali in testa, ho lavorato per il commercio equo, ho vissuto Genova durante il G8 del 2001 e ho cercato uno strumento interpretativo ulteriore: la narrazione.

Espressione contro repressione era il mio mantra, quando mi sono iscritta alla Scuola Holden di tecniche della narrazione. Da allora mi impegno in ricerche e progetti legati al raccontare: dal 2003 insegno una forma di narrazione molto particolare, quella che si scrive ascoltando le persone che raccontano la propria vita o un’esperienza significativa; poi insegno giornalismo per bambini, manutenzione della creatività e scrittura fiabesca. Ho pubblicato racconti; scrivo per alcune riviste, sono giornalista pubblicista. Curo il progetto Infinito8marzo, che dà voce alle donne intervistandole per le strade della mia città, Torino. Le fiabe sono tornate nella mia vita e sono, a volte, tema delle mie lezioni: non ho ancora trovato la formula magica, ma conosco e insegno il potere conoscitivo e sociale delle storie ben raccontate. Qualunque sia il loro finale.

A maggio 2020 è uscito il mio libro Ascoltare e narrare le vite degli altri. Oltre gli stereotipi, i silenzi, le ingiustizie per Dino Audino Editore.