Di Marina Gellona

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Rosso è il colore della copertina dell’edizione italiana di Dolores Claiborne, un libro che ho deciso di leggere dopo aver ascoltato l’unica puntata di Morgana, che ha come protagonista un uomo. Morgana è il podcast di Chiara Tagliaferri e Michela Murgia, che loro presentano con queste parole: “Morgana è la casa delle donne fuori dagli schemi, quelle controcorrente, quelle che nella percezione comune sono strane, pericolose, esagerate, stronze, a modo loro tutte diverse e difficili da collocare. Forse sono donne che non sposereste o non vorreste come amiche però mettetevi l’anima in pace, non sono mai stati questi i loro obiettivi: vogliono piacersi non compiacervi; questo spazio si chiama Morgana perché le rappresenta tutte, un po’ fate e molto streghe, belle e terribili insieme”.

Morgana conta ad oggi due stagioni di cui la seconda ha il fulminante sottotitolo: “sono io l’uomo ricco”, poiché riguarda donne che hanno fatto o gestito molti soldi ed è una narrazione poliedrica, dai poteri davvero magici; è una galleria anarchica di ritratti di donne che presenta, in controluce, la silhouette inquietante e ombrosa della società in cui viviamo, del suo bisogno – no: della sua violenza – di tenere le donne dentro schemi così stretti e rigidi che mirano a togliere il respiro vitale e il diritto a un movimento libero, autentico, personale, riconosciuto nella sua alterità.

Dopo l’ascolto delle puntate spesso mi sono sentita confusa, bruciare, spostata: ho sentito che si spostava qualcosa sui confini tra lecito e illecito, tra ciò che si fa sempre e ciò che si può fare, nelle definizione acquisite di violenza e gentilezza e questo, per me, è un bene: ogni volta che una narrazione mi spinge a rivedere i concetti e i loro confini e i significati delle parole, io sento entrare aria nuova nelle stanze che la mia mente e le mie scelte abitano e in cui si muovono. Aria più libera, aria più pulita.

Le mie puntate preferite sono quelle dedicate a Grace Jones, Tonya Harding, Madonna, Moana Pozzi, la Veuve Clicquot, Beyoncé, Marielle Franco, Angelina Jolie, ma davvero, sono tutte interessantissime (con bella musica, tra l’altro, e conversazioni con ospiti che le conduttrici invitano a dialogare sui temi delle vite delle donne narrate), capaci di vedere le contraddizioni assolutamente personali, il rapporto con il fallimento, il successo, il tradimento, i desideri, la legge, il conformismo, il corpo, le aspettative, i propri talenti, la propria aggressività e insubordinazione, il maschile.

Ecco, solo uno è l’uomo a cui Murgia e Tagliaferri dedicano un ritratto, ed è l’autore del libro dalla copertina rossa che tanto mi ha affascinata e coinvolta ed emozionata quest’estate: Stephen King, scelto dalle due autrici di Morgana perché uno dei pochissimi in grado, secondo loro, di raccontare le donne dal punto di vista delle donne, con una particolare attenzione a protagoniste femminili che dopo essere cresciute o vissute nella violenza domestica, ad un certo punto, reagiscono, riprendendosi il potere di scelta, di autodeterminazione, il diritto a una vita, a un corpo, a una mente, a un cuore integri, liberi, fuori pericolo, sollevati dalla pressione della minaccia fisica, psicologica, economica dell’uomo con cui vivono.

Il libro di King sul quale si concentra Morgana di cui voglio parlarvi è Dolores Claiborne.

Non vi svelerò molto, perché desidero che la vostra esperienza di lettura sia integra e piena com’è stata per me; ho trovato questa narrazione sconvolgente e raffinatissima perché così capace di guardare dentro il dramma di una donna, Dolores e di farlo ad un altissimo livello espressivo, letterario. Il suo dramma, che è il dramma di moltissime donne ovunque nel mondo.

Solo in Italia, secondo i dati Istat relativi al 2019, una donna ogni tre giorni muore per mano di un uomo che la uccide perché la considera di sua proprietà, a sua disposizione, a disposizione delle sue azioni, della sua cattiveria, delle sue scelte violente, delle sue minacce, di un illecito e criminale, disumano senso di possesso e di controllo, che non accade come un improvviso gesto unico e omicida, ma per lo più (è stato studiato, documentato, spiegato) segue un’escalation che dalle parole passa ai gesti, alle azioni violente, ripetute, persecutorie, annichilenti in un crescendo che porta all’uccisione. E se non arriva a quello, questa mentalità pervade e avvelena la vita delle donne in mille forme e modi che è vitale imparare a riconoscere.

Dolores è una donna, vive nel Maine, è sposata con un uomo maltrattante, ha tre figli che ama moltissimo e per i quali ha rispetto, cura, attenzione. Si spacca la schiena lavorando come badante in casa di un’anziana signora ricca, vedova e dal passato non chiaro. Si spacca la schiena per i figli, soprattutto.

Ma, quando torna a casa, a seconda dell’umore, anche il marito le spacca – letteralmente – la schiena o la umilia. O la maltratta, a parole, con i gesti, con i fatti.

Che cosa farà Dolores per sopravvivere, prima di tutto, ma poi anche per vivere e per poter garantire ai figli e a se stessa una vita libera e dignitosa, cosa impossibile con un uomo maltrattante e violento intorno? Non ve lo dirò, perché non mi piacciono le recensioni che svelano la trama. E non vi dirò nemmeno da dove parte e come, questo monologo  fiammeggiante e dirompente di oltre duecentocinquanta pagine in cui Dolores ci racconta la sua versione dei fatti dei quali è protagonista.

Vorrei dire qualcosa in più, invece, su che cosa indaga King scrivendo questo libro. Indaga la difficoltà ma anche la capacità di vedere le maglie strette della violenza in cui, in quanto donne, ci si trova nella vita e il motivo per cui è così difficile vedere che queste maglie sono strette e soffocanti e ingiuste, e indaga il motivo per cui è così difficile dare un nome alla violenza, e una volta che l’hai riconosciuta, sfilarsi da quelle maglie, e farlo senza correre i pericoli più gravi, e farlo con attenzione, con aiuti, costruendo una rete per non cadere nel vuoto o trovarsi isolate faccia a faccia con la violenza peggiore che si scatena quando decidi di non starci più; ci si sente ancora più esposte, davanti alla cattiveria minacciante di un uomo che pensa di poter fare tutto quello che vuole contro di te, negando i tuoi diritti, alla libertà, alla sicurezza fisica e psicologica, i diritti che ciascuna persona ha, in quanto persona, cittadina, libera di autodeterminarsi, dignitosa.

Nella realtà, non si può vivere in una scatola di paura, si può chiedere aiuto, ci si può collegare a chi sa come supportare le persone che vogliono uscire da situazioni di violenza e questa rete di aiuti esiste, ovunque nel mondo.

In Italia questa rete è soprattutto quella ricchissima di esperienza, competenze, relazionali, psicologiche, legali e culturali gratuite e garanti dell’anonimato dei Centri Antiviolenza, riuniti nella rete Di.Re. e diffusi sul territorio italiano. Se volete conoscere meglio queste esperienze, le trovate raccontate in un altro libro molto ben scritto, che tutte noi per noi stesse e per le donne che ci sono vicine, dovremmo leggere: Io sono mia. Donne e centri antiviolenza, storie di rinascita di Luca Martini.

Nella prefazione del libro, Antonella Veltri, presidente di Di.re. scrive: “Nessuna donna verrà indirizzata verso soluzioni uniche e preconfezionate, né troverà spinte per intraprendere percorsi non scelti e voluti. (…) È per questo che i nostri Centri Antiviolenza credono che uscire dalla violenza significhi riprendere il controllo della propria vita e delle proprie decisioni; che l’unica via di una donna per venire fuori dalla violenza maschile passata, presente e futura, sia essere e sentirsi libera di fare le proprie scelte, di dire di no, di amarsi prima di amare”.

Se sei stata minacciata, a casa, al lavoro, per strada, se un uomo ti ha tirato un oggetto, ti ha ferita, fisicamente o psicologicamente, o ha fatto del male a qualcosa o qualcuno che ti sta accanto, se ti ha fatto paura dicendo o facendo qualcosa a te o ai tuoi figli, se ha cercato di isolarti o di accerchiarti intromettendosi nella tua vita, nella tua quotidianità, seguendoti, spaventandoti, non rispettando i tuoi no, la tua privacy, la tua libertà, i tuoi diritti di scegliere per te stessa qualsiasi cosa ti riguardi, puoi fare una scelta per uscire dall’angolo in cui un altro ha provato a confinarti: non stare da sola, non stare nel cantuccio buio in cui ti ha incastrata per poi farti ancora più male e farti sentire piccola, fragile, senza possibilità di movimento o senza forze: un centro Antiviolenza vicino a te può ascoltarti, aiutarti a fare chiarezza (avere paura confonde, paralizza, inquieta, ti fa chiudere in uno spazio in cui ti manca il respiro, ma è lì che si limitano libertà, energia, fioritura), sostenerti nelle tue scelte, nel percorso (è un percorso, e si può fare insieme a persone competenti che ti sostengono e rispettano i tuoi tempi e ogni tua scelta) di uscita dalla violenza.

Te lo dico per esperienza, te lo dico perché grazie alle conversazioni con le operatrici sensibili, attente, competenti del centro antiviolenza che io ho contattato quando ero spaventata e in pericolo, mi sono sentita sostenuta e ho capito pian piano come proteggermi, come leggere meglio la situazione in cui mi sono trovata e come muovermi per sentirmi più libera, protetta, nel pieno dei miei diritti, con un supporto psicologico, legale, di sorellanza, competente e necessario.

Marina Gellona

Da bambina, come tante, amavo la formula magica con cui si chiudono quasi tutte le fiabe: “e vissero tutti felici e contenti”. Crescendo ho capito che il lieto fine non si verifica con facilità, in nessun ambito della vita: e per un periodo non l’ho presa bene. Mi sono laureata in filosofia con molte domande esistenziali in testa, ho lavorato per il commercio equo, ho vissuto Genova durante il G8 del 2001 e ho cercato uno strumento interpretativo ulteriore: la narrazione.

Espressione contro repressione era il mio mantra, quando mi sono iscritta alla Scuola Holden di tecniche della narrazione. Da allora mi impegno in ricerche e progetti legati al raccontare: dal 2003 insegno una forma di narrazione molto particolare, quella che si scrive ascoltando le persone che raccontano la propria vita o un’esperienza significativa; poi insegno giornalismo per bambini, manutenzione della creatività e scrittura fiabesca. Ho pubblicato racconti; scrivo per alcune riviste, sono giornalista pubblicista. Curo il progetto Infinito8marzo, che dà voce alle donne intervistandole per le strade della mia città, Torino. Le fiabe sono tornate nella mia vita e sono, a volte, tema delle mie lezioni: non ho ancora trovato la formula magica, ma conosco e insegno il potere conoscitivo e sociale delle storie ben raccontate. Qualunque sia il loro finale.

A maggio 2020 è uscito il mio libro Ascoltare e narrare le vite degli altri. Oltre gli stereotipi, i silenzi, le ingiustizie per Dino Audino Editore.

https://www.marinagellona.com