Di Marina Gellona

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Incontro questo piccolo libro in una bella edizione Einaudi morbida e lucida nella libreria della mia amica Stefania, il giorno dell’epifania; pranziamo insieme, nella sua bella casa piena di luce, che guarda la collina oltre il Po, un filo di perle e di luci attraversa il tavolo a forma di uovo, dove ci sono una bottiglia di vino rosso, un risotto impiattato con cura, un flan di zucca e involtini di cavolo verde, le ceramiche azzurre e rosse, un tris di tovaglioli viola, grigi, bordeaux. Come dolce: frittelle di mele dorate.

Sulla copertina del libro, campeggiano i colori contrastati del dipinto Il silenzio abitato delle case di Henri Matisse: blu, azzurro, giallo, verde e bianco (e nero).

 

 

Le due figure umane del dipinto hanno l’ovale della testa azzurro, contornato di giallo, come il busto. Non ci sono lineamenti. Sono ovali vuoti, senza occhi e senza bocca, naso, orecchie, sopracciglia, ciglia. Vuoti o, forse, liberi, aperti. Il libro (o quaderno) bianco – senza parole – sul quale si chinano le due figure suggerisce una lettura, o una scrittura. Un vaso di fiori azzurri e blu fa compagnia alle due figure, un adulto (o un’adulta) e un bambino. Un’enorme finestra incornicia il mondo fuori dalla stanza, che ha pareti nere, quasi di lavagna, come va di moda ai nostri tempi: una parete su cui tracciare segni e parole con i gessetti. Anche in questo dipinto d’altri tempi sembra che qualcuno abbia tracciato dei segni sul muro.
Guardare questa copertina dopo aver letto i racconti di questo volumetto mi disegna un sorriso sul volto, perché la vedo – ora – come una sintesi dell’esperienza di lettura che un libro, e soprattutto un libro di racconti brevi, può regalare. Uno sguardo, come dice Paolo Cognetti nella sua raccolta di riflessioni sul racconto breve A pesca nelle pozze più profonde, sulle vite dei protagonisti delle storie colto sbirciando dalla finestra, da fuori a dentro: si intravede qualcosa e quel qualcosa ha il potere di rimandare a un quadro più ampio, più profondamente significativo, perché chi scrive compie un gesto analogo a quello del pittore: sceglie una composizione cromatica, figurativa che crea un campo di forze emotive cariche di significato, di una pluralità di significati, capaci di colpire, in poche pagine, chi legge, di aprire in lui una breccia.

Ecco, A.S. Byatt crea tre occasioni di sguardo su tre donne diverse, ciascuna delle quali incontra un dipinto di Henri Matisse e intorno all’incontro con questo dipinto vive un evento determinante per un piccolo, profondamente significativo, cambiamento: di vita, di prospettivo, di stato d’animo.

 

 

Nel primo racconto una signora di mezza età sceglie un parrucchiere attratta dal Nudo rosa che intravede dalla vetrina del salone di bellezza. Questo racconto – il mio preferito dei tre – ruota intorno al tema dell’avvicinarsi della vecchiaia e del cambiamento di percezione della propria identità legato ai mutamenti dell’immagine corporea, che questo passaggio esistenziale implica. In un crescendo di tensione narrativa, nello stato di immobilità davanti allo specchio, in attesa di un’acconciatura che “ringiovanisca”, la protagonista sentirà l’urgenza di un gesto dinamico, di un movimento capace di contrastare in un modo – forse – più efficace la paura e il dolore del passare del tempo. Illuminante.

Il secondo racconto, che parte da Il silenzio abitato delle case (il dipinto che compare sulla copertina del libro), è un’esplosione di colori che tiene chi legge in bilico su un reticolo di accostamenti variopinti: “E la signora Brown aveva annuito con convinzione, accettato una tazza di caffè, e si era liberata del trench, rivelando calzoni color crema ricavati da una qualche spessa tela di divani, meravigliosamente attraversata dalle bocche cremisi di fiori indiani e uccelli del paradiso e viticci di rampicanti ultraterreni, e un golf blu reale fittamente ricoperto di margherite, bianche pratoline, gerbere arancioni ricamate con filo di lana”. Ed è solo uno dei molti passaggi del racconto in cui gli accostamenti iridescenti della signora Brown, che aiuta nelle pulizie la protagonista, Debbie, si alternano agli oggetti coloratissimi che animano l’atelier del marito di Debbie, un artista bloccato, che ha un rapporto conflittuale con la domestica, la signora Brown e con il suo modo di muoversi nello spazio casalingo. Il conflitto tra l’uso del colore che la signora Brown mette in atto nei suoi ricicli creativi tessili e quello del marito della protagonista genererà la svolta finale del racconto, dove Debbie, un’artista prestata – con una certa frustrazione – al giornalismo in una rivista di design, sentirà fortissima la nostalgia per la propria arte e agirà di conseguenza.

Questo racconto è un’esplosione di energia, come spesso accade (lo racconta così bene la Ingrid Fetell Lee nel suo saggio narrativo Cromosofia) quando si chiama in gioco l’arcobaleno, la compresenza nello spazio di tutti i colori.

 

 

Nel terzo racconto, che ruota intorno al dipinto di Matisse Lusso, calma e voluttà, (titolo che nasce da un verso della poesia Invito al viaggio di Charles Baudlaire), la protagonista è una docente universitaria che incontra, in un raffinato ristorante cinese londinese, un collega accusato da una studentessa di molestie. Il contrasto tra le portate del menù – “un guizzo di peperoncino, una fragranza di lychee di impercettibile dolcezza, la piccante nerezza dei fagioli, l’elementare terrena croccantezza dei germogli di grano” e poi le ostriche al vapore con zenzero e cipolla fresca… e l’argomento della conversazione, che parla di una denuncia di gesti osceni, di depressioni e dei tentativi di suicidio della ragazza e della sua anoressia, piano piano, dal parlare della studentessa e dell’accusa di violenza, si sposta verso i presenti, i due commensali e i loro mondi interiori le loro stanze bianche, le loro irraggiungibili stanze di ghiaccio, con questo bellissimo passaggio: “Due persone possono parlare, in qualunque momento, in modo molto civile, di cose banali, o anche di cose complesse e delicate. E dentro ciascuna di loro scorre un oscuro fiume di pensieri sconnessi, di segrete paure, di violenza, di felicità, attesa o perduta, che sta al passo col fluire del discorso e non si vede, né si sente. E a tratti uno dei due, o entrambi, colgono tale movimento, dentro di sé, o più raramente nell’altro. E somiglia al precipitare di una cascata in una pozza d’acqua, come una goccia nell’oscurità. Cambia il ritmo, il peso dell’aria, per quanto la conversazione continui liscia, senza increspature o sussulti.”

Ho letto queste parole estasiata, e sono parole dove, per me, si rinnova la magia della lettura, dell’incanto che da quando sono bambina mi riporta sempre ai libri, alla meraviglia delle parole capaci di dire l’invisibile, tanto invisibile quanto profondamente significativo, importante, umano, condiviso.

Tre donne singolari, tre drammi universali: il confronto con il passare del tempo, con l’espressione della propria creatività, con le proprie responsabilità civili intrecciate alla responsabilità verso se stesse e all’incontro con l’altro, con l’altra.

Tre figure, di cui possiamo intravedere l’ovale e la forma, pochi tratti, ma illuminati da un’intuizione, proprio come sulla copertina del libro, tre figure che grazie alle parole diventano luminose, accendono possibilità di sguardo. In fondo, siamo tutte e tutti impegnati nella lettura – e nella scrittura – di un libro dai caratteri inizialmente indecifrabili, come una stanza bianca, di ghiaccio, dove teniamo congelate le cose che non sappiamo di noi, che non capiamo, alle quali non lasciamo avvicinare gli altri.

Il calore di un dipinto, di una parola detta con arte, possono scongelare e rimettere in movimento ciò che era immobilizzato, vedere ciò che era in ombra, ospitare l’ombra, accoglierla, intravederne le fattezze.

Dove prendere i colori e le parole? All’aperto, fuori dalla finestra: è il mondo, con le sue situazioni, in infinite combinazioni, a prestarci i colori e le forme per dare voce al bianco che a volte ci paralizza.

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Marina Gellona

Da bambina, come tante, amavo la formula magica con cui si chiudono quasi tutte le fiabe: “e vissero tutti felici e contenti”. Crescendo ho capito che il lieto fine non si verifica con facilità, in nessun ambito della vita: e per un periodo non l’ho presa bene. Mi sono laureata in filosofia con molte domande esistenziali in testa, ho lavorato per il commercio equo, ho vissuto Genova durante il G8 del 2001 e ho cercato uno strumento interpretativo ulteriore: la narrazione.

Espressione contro repressione era il mio mantra, quando mi sono iscritta alla Scuola Holden di tecniche della narrazione. Da allora mi impegno in ricerche e progetti legati al raccontare: dal 2003 insegno una forma di narrazione molto particolare, quella che si scrive ascoltando le persone che raccontano la propria vita o un’esperienza significativa; poi insegno giornalismo per bambini, manutenzione della creatività e scrittura fiabesca. Ho pubblicato racconti; scrivo per alcune riviste, sono giornalista pubblicista. Curo il progetto Infinito8marzo, che dà voce alle donne intervistandole per le strade della mia città, Torino. Le fiabe sono tornate nella mia vita e sono, a volte, tema delle mie lezioni: non ho ancora trovato la formula magica, ma conosco e insegno il potere conoscitivo e sociale delle storie ben raccontate. Qualunque sia il loro finale.

A maggio 2020 è uscito il mio libro Ascoltare e narrare le vite degli altri. Oltre gli stereotipi, i silenzi, le ingiustizie per Dino Audino Editore.